“Esonero mio figlio dalle escursioni in montagna perchè inutilmente faticose”; “Guida, anche se i miei amici mi avevano detto che la montagna, non quella dello sci, è un posto da sfigati, io mi sono divertita lo stesso!”.
Queste e talte altre sono le perle che abbiamo raccolto nei 10 anni di gestione al Rifugio Levi-Molinari di proprietà del Club Alpino di Torino, nella conca del Galambra, in alta Val di Susa.
Un luogo quasi perfetto per le attività di didattica ambientale, riserva di ripopolamento faunistico a protezione assoluta, grande varietà di specie botaniche, geosito di forte interesse, ma ancor più appetibile per la vicinanza, 10-15 minuti a piedi dal parcheggio dei veicoli.
Forse le citazioni sono di solito più rappresentative di una distorsione estremizzata della realtà, ma in questi ultimi anni abbiamo notato come realmente sia diminuito l’interesse dei ragazzi nei confronti della montagna, intesa non solo come luogo fisico ma anche come rappresentazione culturale.
Sempre più forte è la difficoltà di far accettare ai ragazzi il minimo sforzo fisico richiesto delle pur brevi escursioni da noi proposte: spesso li stessi insegnanti sono quasi in ostaggio dei ragazzi: va da sè ch in queta epoca di scuola=impresa l’indice di gradimento diventa il metro di scelte quasi obbligatorie.
“Lo dirò ai miei genitori che ho camminato per due ore!”; “I miei cugini sono andati a Barcellona! Quella sì che è una vera gita!”.
La fatica deve essere fortemente finalizzata: l’allenamento di calcio, la scuola di danza devono avere obiettivi perfettamente in linea con le proposte di una cultura soprattutto televisiva.
Sempre fortemente condizionati dai media, i ragazzi in questo ultimo anno paragonavano l’esperienza di un soggiorno presso il nostro rifugio alla trama del film Avatar, con un immedesimare i paesaggi alpini a quelli di un altro pianeta.
Questo veramente un po’ sta avvenendo, la vita reale è quella virtuale e ciò che avviene al di fuori diviene “altro”.
Gli sport devono essere estremi, non sci di fondo ma freestyle, se bicicletta deve essere solo down hill, l’arrampicata, sì certo, ma solo “a mani nude”, definizione che nonostante trent’anni passati a scalare non riusciamo ancora a capire.
La perdita di interesse nei confronti della montagna fra i giovani non è rilevabile solo dalle esperienze personali ma anche dalle statistiche delle presenze turistiche e dalla crisi di iscrizioni alle associazioni più convenzionali e vicine alla montagna come il C.A.I.
Uno degli effetti evidenti di questo fenomeno è l’incapacità più o meno conclamata di affrontare un terreno impervio come può essere quello dei sentieri o di muoversi fuori dalle tracce tra rododendri e pascoli, pietraie e tutti quei piccoli ostacoli che connotano il paesaggio alpino.
Nella nostra personale esperienza ventennale di accompagnatori naturalistici abbiamo potuto osservare un’evidente evoluzione/involuzione delle capacità psico-fisice dei ragazzi; un altro punto dolente è la scelta dei materiali di abbigliamento con evidenti acquisti di capi per i soggiorni con una maggior attenzione all’estetica (bellissimi nuovi pigiami, splendide pantofoline), alla tecnologie o meglio all’idea che si ha di essa (binocoli giganteschi, cannocchiali, orologi multifunzione, gli onnipresenti cellulari).
La non conoscenza dell’ambiente, la realte incapacità nell’affrontarlo, i materiali, l’immaginario virtuale fatto di estremismi sportivi, il delegare l’assunzione del rischio (che dovrebbe essere una matura scelta personale) alla tecnologia, tutto porta ad aumentare il livello di rischio e una proporzionale diminuzione di sicurezza, due dati che non necessariamente sono conseguenziali.
Questo quadro può sembrare eccessivamente pessimistico e forse lo è, ma ci può essere un esito a lieto fine.
La maggior parte dei ragazzi dopo un giorno riprende ad apprezzare la fisicità di un gioco reale, il gusto dell’avventura, la percezione quasi magica del condividere anche solo un attimo gli spazi degli animali selvatici, il buio di notti non illuminate da fari o lampioni, l’esaltazione del mettersi alla prova.
E così alla fine i Jonathan, Michael, Madonna, Jessica finiscono con l’assomigliare ai Giuseppe, Maria, Carlo, Antonello di qualche anno fa.
Questa è una fine un po’ retorica e soprattutto non adeguata a un reale problema.
E’ necessario un serio lavoro di approfondimento su nuove strategie di didattica ambientale legate all’evoluzione culturale e comportamentale con l’apporto di nuovi patrimoni conoscitivi possibilmente multidisciplinari.
Una delle attività da noi proposte prevede una passeggiata a tarda sera con l’utilizzo della termocamera per la visione notturna degli animali. In questo caso l’aspetto tecnologico alimenta la curiosità dei ragazzi ma è poi sempre il buio della notte e le paure, più desiderate che subite, a suscitare emozioni più forti.
Forse tutti noi, gestori di rifugi, istruttori CAI, accompagnatori naturalistici dobbiamo adeguarci ai ragazzi; per tti noi evidentemente la montagna ha costituito una scelta di vita, ne apprezziamo i paesaggi, i tempi, la fatica, il sole come le nebbie, insomma il nostro è quasi un rapporto d’amore, tormentato ma condiviso.
Tutto questo non vale aprioristicamente per i giovani: anche se vi sono tanti stimoli, ognuno deve essere rielaborato per incuriosire, attrarre, stupire, affascinare… ancora una volta!
Marco Pozzi e Tiziana Di Martino
Articolo uscito sulla Rivista Intersezionale 2011 dedicata alla sicurezza in montagna