I miei primi ricordi di montagna, in qualche caso anche solo colline, sono strettamente collegati a cosa mangiavo nelle obbligatorie vacanze estive con fratello e genitore: i picnic con le classiche uova sode, i panini imbottiti con la milanese, lo strudel dei rifugi dolomitici, la panna e mirtilli a La Visaille..In effetti mio padre non era un gran camminatore, sicuramente più un buongustaio, ma anche quelle merende sono state uno dei tanti tasselli che hanno influenzato le mie scelte di vita: mangiare un gelato davanti alla Noire e ai Piloni del Monte Bianco mi faceva capire come apprezzare un cibo non fosse solo una questione di papille gustative. Il paesaggio, gli amici, la fatica di una passeggiata erano gli altri ingredienti che davano un diverso significato al mangiare, ritagliandosi uno spazio ben preciso nella memoria assieme ai ramasin rubati dalla pianta intiepiditi dal sole, alla marmellata della nonna, alle marode notturne di ciliegie. Quando ho incominciato a frequentare la montagna giocando a fare l’alpinista, più di 40 anni fa, i rifugi erano per me solo una tappa per le ascensioni del giorno successivo, le mie finanze mi permettevano giusto il costo del pernottamento, il resto erano minestre liofilizzate, frutta secca, il fornellino per il thè, zollette di zucchero, il mitico tubo di latte condensato. Conquistando oltre alle vette anche i primi lavori con relativa paga, potevo permettermi il classico menù da rifugio: minestrone, meglio della pasta sempre scotta, polenta e salciccia, salamelle e crauti, anche se già c’erano luoghi che acquistavano fama non solo per le salite, ma anche per i menù proposti, per non parlare delle piole di fondo valle che si specializzavano a sfamare i reduci, vincitori e vinti, dalle salite della domenica.
Non mi ricordo nemmeno più quando da alpinista, scalatore mi sono trasformato in rifugista cuciniere, sicuramente tanti anni fa e ho avuto modo di vedere l’evoluzione della proposta gastronomica nei rifugi dall’altra parte della barricata ,
“Polenta pulentà pansa piena e mal disnà” cantilenava mia nonna, mai avrei pensato di cucinarne poi così tanta… Eppure proprio la farina gialla del mais è diventata da cibo per le classi più povere a piatto quasi obbligatorio nelle peregrinazioni domenicali nei rifugi di quasi tutto l’arco alpino.
Il termine originario maya era “mahiz “ che tradotto significa grano d’oro, sicuramente lo è diventato anche per molti gestori che nei lontani tempi di un mondo senza crisi hanno ben guadagnato proponendola sempre e solo con formaggio o salsiccia. Tanti anni fa avevo consigliato, in un rifugio dove lavoravo in cucina, di adottare qualche altra ricetta, ma mi veniva sempre detto ” quante persone abbiamo avuto oggi? 150? Cosa hanno mangiato: polenta e così è stato l’anno passato e così sarà per il prossimo”. Nei secoli e nei secoli… inevitabile e insostituibile.
Invece le cose cambiano, viene fatta sempre più attenzione alla gastronomia, ai prodotti del territorio, alle ricette tradizionali come alle proposte innovative, i cuochi diventano personaggi televisivi di primo piano, i critici stroncano con sottile e perfido gusto e più sono acidi e più anche loro diventano famosi. ..I libri di ricette entrano nelle classifiche dei più venduti, spesso se scritti da star che poco centrano con le cucine. I nostri clienti vivono questa piccola rivoluzione alimentare e, visto che solo virtualmente noi gestori siamo isolati dal mondo reale, ben presto ci rendiamo conto che cambiare è necessario. Anche perché, almeno nei rifugi più accessibili, siamo obbligati a individuare le esigenze delle diverse utenze; le tecniche di promozione, tra siti internet e facebook. Ci si scontra con le normative comunitarie che spesso sono difficilmente applicabili in un ambiente come quello di un rifugio, con percentuali di metrature tra cucina e quantità di clienti possibili, piastrellature, magazzini, sistemi di autocertificazione. Sicuramente siamo all’avanguardia, almeno nel confronto con i nostri vicini Francesi, anche, a detta di tutti gli stranieri, per la qualità. Si sente la necessità di crescere, di aggiornarsi ognuno col proprio stile e la propria impostazione culturale. Si partecipa a corsi tenuti da grandi chef, si approfondisce la conoscenza dei prodotti del territorio e tutto questo viene fatto con la sponsorizzazione della Provincia, facilitato con l’individuazione dei Prodotti del Paniere.
In tanti decidiamo di partecipare ai corsi per acquisizione di marchi di qualità scoprendo spesso che a detta dei cosiddetti “clienti misteriosi”, i verificatori nascosti dei livelli raggiunti, le nostre proposte non sfigurano con quelle di alberghi ben più titolati.
A parte le scelte consapevoli, in effetti per noi spesso gli acquisti a km 0 sono sempre stati nella normalità, il miele, le tome, il burro, le patate, il vino sono tutti alimenti che scegliamo dai produttori locali che spesso sono il pastore che ha la bergeria poco distante dal rifugio. La stessa essenzialità delle nostre cucine ci obbliga ad evitare tutti i piatti particolarmente elaborati e, forse, la semplicità ha il pregio di suscitare memorie culinarie perse e cancellate dalla nouvelle cuisine o dalla ristorazione veloce, dai piatti pronti all’”apericena”.
Insomma siamo ruspanti, anche involontariamente, quanto basta per soddisfare le esigenze di una clientela decisamente cambiata, non più l’alpinista spiantato che si cucina una minestra Maggi, ma il cittadino alla ricerca di curiosità alimentari e anche il trekker straniero che sceglie le nostre strutture non solo per la bellezza dei percorsi, ma anche per la qualità della ristorazione. Ci si adegua con Cene sotto le Stelle, degustazioni di prodotti vari, le birre artigianali, polenta sempre, ma fatta con antichi mais piemontesi macinati a pietra, l’attenzione alle tante allergie alimentari con la proposta di alimenti specifici cucinati in modo corretto.. Non abbiamo solo cambiato presuntuosamente il nome delle cose come cantava Paolo Conte “ Tortino di Mais e Pesce Veloce del Baltico..”ovverossia polenta e merluzzo. Nel nostro Rifugio in questi ultimi 13 anni abbiamo giocato nell’inventare ogni stagione una nuova ricetta , senza andare a sfogliare libri antichi o recenti, solo per il piacere di sperimentare nuovi abbinamenti tenendo come base sempre la polenta; qualche ingrediente: fichi, gorgonzola, castagne, ortiche, cavolo, uvetta, menta, miele, abbiamo anche giocato sui nomi: polenta lenta ( con le lumache ), polp polenta ( con il polpo, pomodoro e olive) partendo dagli antipasti per finire col dolce. Un sano pizzico di follia che ha coinvolto i nostri più abituali frequentatori in gare di assaggi con promossi e bocciati e che ci ha portato addirittura a presentarne a Eataly in completa formazione familiare: pare, mare e la masnà, il cane non l’hanno voluto far entrare. Proprio in quest’ottica spesso ho sostenuto che i rifugi sono quasi dei presidi di una cultura che non deve essere venerazione immobile del passato, di quando si era più giovani, e le imprese erano più eroiche ecc, ecc, ma un ponte tra tutto quello che la montagna rappresenta, anche nella iconografia comune, e i nuovi frequentatori, quelli che mangiando una polenta al Levi e guardando il Niblè in una giornata di sole possono desiderare , forse di non salire fin lassù, ma di avvicinarvisi un po’ di più.
Articolo scritto per la Rivista Intersezionale 2015 “Muntagne Nostre” da Marco Pozzi